OTTO
<OTTO>
progetto e realizzazione Kinkaleri/Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo | con Luca Camilletti, Marco Mazzoni, Cristina Rizzo, Matteo Bambi | produzione Kinkaleri – 2002/2003 | in collaborazione con Teatro Studio di Scandicci, Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Xing | con il sostegno di MiBAC – Dipartimento dello Spettacolo, Regione Toscana, European Network DBM, Dance Bassin Méditerranée.
<OTTO> è un vuoto: l’unico posto dove stare.
Aspettare. Guardare. Alzare la testa. Vedere gli aerei, indicarli col dito. Esplodere in mondovisione.
Questo non è un soggetto. Non avere nessuna parola, evitare lo sguardo smarrito del mio gatto.
<OTTO> è un vuoto, ora, una sospensione del mondo, evitare di guardare, conosco già tutto, siamo al massimo valore della rappresentazione crudele del mondo che si offre alla rappresentazione indecente di sé. È soltanto un numero: otto; è anche una parola che significa un numero.
<OTTO> scena morta. La presenza, mettersi in; l’oscenità di tale atto, la pornografia dello sguardo di chi lo abita, i percorsi tracciati, le componenti del risultato, innescano quei piccoli miracoli impronunciabili dovuti a coincidenze fortuite. Solo nella spietata visione di un’idea si nascondono verità di una poesia miracolosa. La creazione di per sé suggerisce l’idea del crimine, sono i criminali con i loro atti senza progetto i veri artisti e, sulla scena vuota, nel galleggiare dei reperti che svelano le tracce di atti improbabili, si costruisce un concetto. Vedere un corpo che agisce se stesso è la risultanza di tale sforzo e noi crediamo che se tale gesto fosse invertito a spietata essenza sarebbe la meraviglia.
La meglio estate
di Goffredo Fofi – HYSTRIO – agosto 2002
…Nella vasta scena di una palestra entrano e escono tre personaggi: una ragazza con cuffie intenta a un dialogo con se stessa solipsistico e incurante, un signore che ogni volta che entra in scena prima o poi cade in terra in infinite varianti, e un giovane “homo faber” molto fattivo, che intende sperimentare, si presume, azione scienza e poesia. Ognuno per sè. Via via insozzando l’ambiente di residui di vario genere, in un seguito di piccole azioni che suscitano molto spesso il sorriso o una risata liberatoria e malinconica. Perché non c’è da sbagliarsi, quella cui assistiamo è una leggera, fresca, squisita rappresentazione della storia umana e della sua progressiva “stupidità”. E i tre personaggi siamo noi, sono metafore di una condizione che ci appartiene. Si possono dire cose molto profonde con lievità, e <OTTO> è davvero, alla fine, bello e poetico come una comica di Keaton, come una danza di Astaire e Kelly. E’ triste come una commedia di Beckett. E’ un “film” che oggi la banalizzazione del cinema, solo merce e solo spettacolo, non riesce più a darci.
Quello di Kinkaleri è un “OTTO” volante
di Nico Garrone – LA REPUBBLICA – 17 marzo 2003
Come Mastroianni, il regista in crisi di 8 e 1/2 che non aveva nulla da dire ma lo voleva dire ugualmente, anche Otto, ottavo spettacolo dei fiorentini Kinkaleri, con sede al Teatro Studio di Scandicci (Premio UBU2002 per il teatrodanza), parte dal nulla per costruire una metafora lucida, angosciosa ed esilarante del nostro Mondo Felice. Una scarpa femminile abbandonata. Cinque altoparlanti che ricordano bidoni beckettiani, un sipario chiuso come fondale sono gli unici arredi di una scena capovolta dove per buoni 5 minuti non appare anima viva Quando il termometro dell’ansia è salito al punto giusto, il vuoto è palpabile, da una fessura del sipario fa capolino un uomo (Luca CamilIetti) che dopo un passo va giù disteso. Una caduta che si ripete con varianti da comica muta ogni volta che prova a muoversi su quel pavimento che si va riempiendo di tracce criminali e derive del consumismo usa e rigetta. Insieme all’uomo che cade giocano su quella pista desolata dove ogni sforzo si sfalda, una ragazza (Cristina Rizzo), l’unica ad accennare passi di danza, perennemente in cuffia, indifferente a tutto, e un volenteroso creativo (Marco Mazzoni) occupato a misurare e progettare percorsi senza futuro. Sotto una luce fissa e fredda.
Fra pause di silenzio, brandelli di musica pop rubata al walkman e rumori di scena ingigantiti tutto è stato detto visto Ma i Kinkaleri con il loro dandismo vorace e anoressico, la loro sfuggente ironia Io dicono benissimo. E in modo nuovo.
Indisciplina creativa e grotteschi squarci di realtà
di Andrea Nanni – PRIMA FILA – marzo 2003
Forse una clownerie sul l’orlo dell’abisso. o un’improbabile slapstik tragedv, oppure l’eco friabile di una remota implosione, o un sarcastico (ma non per questo impietoso) documento sullo stato delle cose: è difficile definire in maniera univoca Otto, nuovo spettacolo di Kinkaleri, formazione in cui attori, danzatori, architetti e videomaker interagiscono senza ruoli prefissati determinando una fertile condizione d’instabilità permanente. Spesso apparentato alla danza per la costante centralità del corpo, il lavoro del gruppo toscano si è imposto sulla scena internazionale con spettacoli difficilmente classificabili secondo i consueti criteri di genere, oggetti “indisciplinati” che mettono in discussione ormai consunte divisioni Ira discipline. Applaudita in forma di studio nei più importanti festival estivi un Italiani (senza contare un‘autunnale trasferta parigina in cui le “morti” di anonimi passanti ripresi per le strade della capitale francese venivano trasmesse da una teoria di monitor a circuito chiuso). l’ottava creazione di Kinkaleri ha debuttato già insignita di un Premio Ubu, riconoscimento ambito e prestigioso dispensato da un’ampia giuria di critici nazionali. Il motivo di un consenso così esteso e immediato è forse da attribuire a una scrittura scenica che, pur non rinunziando allo scabro rigore concettuale che caratterizza la pratica scenica di Kinkaleri, usa la comicità come un grimaldello, suscitando risate destinate ad arrochirsi in gola di fronte a immagini che evocano allo stesso tempo la stralunata ironia di Buster Keaton e la crudele evidenza di certi reportage di guerriglia trasmessi al telegiornale. Così, attraverso un sapiente lavoro sulla tradizione, quella di certa comicità ma anche quella più recente della performance, Otto si impone per la sua capacità di comunicare a più livelli: da quello, aristocratico. di campionario di un’estetica del disastro intessuto di citazioni colte e appassionate, a quello, popolare. di regesto neorealista di una contemporaneità colta nelle slabbrature allo stesso tempo ridicole e dolorose, della quotidianità. L’apparente linearità della partitura drammaturgica rivela in filigrana un tracciato circolare scandito da ritmi serrati nel montaggio e dilatati all’interno di ogni sequenza: silenzi e immobilità agiscono sulle figure come reagenti chimici su un vetrino, rivelando la natura ambigua delle visioni e facendo emergere in tutta la sua inquietudine una realtà sfuggente e contraddittoria. L’atmosfera elegiaca che permeava il precedente Mv Love for You Will Never Die vira verso un epilogo cronachistico tra irresistibili celebrazioni della banalità e un masochistico elogio dell’impedimento scandito da gag continuamente sabotate, mentre lo spazio, inizialmente vuoto, viene progressivamente invaso da un’onda di detriti (tra i quali anche il cadavere di un nuotatore). tracce di un atto criminoso senza progetto e senza soggetto, da ricostruire con l‘ausilio di cartelli segnaletici che isolano corpi e oggetti come reperti da archiviare. Riva abbandonata alla risacca del presente, la scena ritrova, sotto forma di sberleffo, la sua antica funzione di specchio della società.