I AM THAT AM I
I AM THAT AM I
progetto e realizzazione Kinkaleri / Massimo Conti, Gina Monaco | con Anna De Mario | voce registrata Simona Sandrini | contributo teorico Lucia Amara | produzione Kinkaleri in collaborazione con far° festival des arts vivants, Nyon | con il supporto di Xing | Kinkaleri riceve il sostegno di MiBAC – Dipartimento dello Spettacolo, Regione Toscana
I AM THAT AM I. Le Serve di Jean Genet fagocitate da una ventriloqua. Un lavoro che rinuncia all’immaginario classico dell’opera, all’artificio esasperato e meraviglioso pensato dall’autore, per proporre una performance ancorata su un doppio livello di rappresentazione. Uno spettacolo in cui parola e corpo sono dissociati inesorabilmente ma pronti a incrociarsi e vacillare. Un testo che nella piena forma della finzione che si finge si apre all’immagine assente, si priva della rappresentazione per consegnarla al suono che si lascia figurare. Una sola persona in scena che rappresenta se stessa e che agisce mantenendo questi due piani separati. Una sorta di show aperto, un non-show inconcludente, incerto nelle identificazioni dove i contorni si sfumano e tutto diventa misteriosamente un accadimento reale, un evento. Una via di fuga, un tentativo di essere nel teatro più rappresentativo del ‘900 per sovvertirlo dall’interno, aprirlo come Artaud aprirebbe una banana, come un corpo abitato da un virus incubato da tempo.
I AM THAT AM I è lo spettacolo conclusivo del percorso di indagine di Kinkaleri su “Le Serve” di Jean Genet avviato con la performance IO MENTO (2009) e con la conferenza/spettacolo TU DICI? (2010).
Piersandra Di Matteo – Nell’inesorabilità di una bocca chiusa
in Effetti di ventriloquio. La scena contemporanea oltre il sentire le voci
Con il ventriloquio la scena si è spostata altrove, nell’incavo tra la bocca e la gola, lì dove si esercitano i limiti della carne: la voce catturata nell’inesorabilità di una bocca chiusa, incubata nel corpo della performer – una sorta di retrocessione del modus loquendi («da un dentro a un dentro») – trasforma la scena in uno spazio acustico abitato da altre presenze, quelle previste dal dramma: le sorelle Lemercier appaiono ora nella loro consistenza di fantasmi acustici, catturate nel taglio tra un interno e un esterno che agita il mondo volatile della percezione. È un modo per assumere in pieno viso la questione del testo: l’intento è quello di marginalizzare, stratificare e sovvertire la sua funzione di perno delle logiche di senso dell’azione scenica. Il ventriloquio serve a produrre faglie d’inquietudine nell’apparato che fonda il teatro di parola e la sua tradizione, facendo piazza pulita della prestazione attoriale centrata sulla voce come suggello del suo funzionamento […].
La formazione toscana dimostra di voler mettere alla prova proprio la natura “doppiamente teatrale” dell’opera, ma non si accontenta del suo doppio fondo di finzione che guarda al doppio fondo del teatro, e mette in moto ulteriori depistaggi attraverso una serie di inganni acustici. Si misura con i mulinelli d’apparenza che imprigionano Claire e Solange, ne sfrutta le stratificazioni finzionali, per alterare il piano delle evidenze in un orizzonte di valori che convocano separazione, opacità, alterità […]. Ma nella partitura dei gesti ordinari un’azione più delle altre risulta significativa, è quando l’attrice-ventriloqua, scatoletta di cerone nero alla mano, inizia a colorarsi lembi di pelle scoperta: le braccia, le dita, il taglio della bocca chiusa. È un’operazione di cancellazione del corpo che progressivamente riconsegna la presenza al buio incavo della bocca. È come se il soggetto parlante nel suo complesso venisse inghiottito, risucchiato dal pertugio buccale come lo scarico del lavandino nel famoso dipinto di Francis Bacon.