pool
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progetto, realizzazione Kinkaleri / Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo | con Luca Camilletti, Marco Mazzoni, Cristina Rizzo | produzione Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Contemporanea Festival 05, Kinkaleri – 2005 | con il contributo di MiBAC – Dipartimento dello Spettacolo, Regione Toscana
Piscina. Pozzanghera. Biliardo.
Un luogo di svariati sollazzi e inappuntabili dondolii, circolazioni del pensiero, misurazioni del tempo e della distanza: da bordo a bordo. Oppure: un luogo che potrebbe essere attraversato da un senso, dal senso, di marciume o cosa stantia. Ancora: un luogo fatto di traiettorie e geometrie, scontri cercati da sponda a sponda o fortuiti.
Uno spazio grigio, un rettangolo di linoleum che accoglie lo spettacolo, il pubblico appena fuori, sui bordi. Una tenda, o fondale, come monumento e parodia, senza piangere sul morto. Tutto costruito per un fronte aprendone altri affacciati sul retro. Fino ad avere negli occhi due porzioni indistinte: la scena al di qua ha la stessa censura applicabile alla mostra di sé che avviene a poca distanza, appena varcata una soglia. Anche se gli occhi del mondo si affollano d’immagini e riferimenti continui, incessanti, affaticanti, non voluti, invadenti. Mettere tutto nello stesso piatto, dentro un’indifferente bellezza, a una durata e a un suono di basso. Se lo spettacolo c’è per essere visto, la performance dichiara l’impossibilità della messa a fuoco. In modo che non ti raggiunga mai. “Che stai facendo?” Guardami guardare. Guardati guardare. Ogni tragedia al suo posto.
Un affascinante catalogo di incubi a occhi aperti
Nico Garrone, La Repubblica – 2 gennaio 2006
Ci sono Spettacoli ben fatti che dimentichi in fretta, ed altri magari sbilenchi, apparentemente sciatti, che sul momento ti lasciano indifferente. Ma poi cominciano a ronzarti nella testa, a perseguitarti come dei fantasmi scomodi e inquieti. E’ il caso di “Pool”, l’ultimo lavoro dei Kinkaleri, il primo dopo la “Trilogia del Nulla”. Qui il gelo beffardo delle emozioni e l’insensatezza dei gesti sono davvero totali. Quello strisciare continuo su una pedana di linoleum rettangolare delimitata da tubi al neon, spingendo due vasi di cactus o ficcando la testa in un pallone sgonfio, quei passi di tip-tap senza la minima eleganza e leggerezza, quel silenzio tombale rotto dagli squilli ricorrenti di un telefono, dagli accordi di chitarra strimpellati da un aspirante rockstar o dai rumori di scena catturati
da un microfono beckettiano sceso dall’alto, non lasciano appigligli di comunicazione spettacolare. Neanche per le catarsi da comica finale di Otto, o per il demenziale entertainement di Cenci. Eppure da questo album d’immagini opache e fuori fuoco nonostante la loro nitidezza quasi oscena, porno-grafica, da questa passerella di “numeri” eseguiti da un campionario di varia subumanità prende forma in “negativo” un paesaggio della mente, lo scenario dei nostri incubi a occhi aperti, delle voragini di stupidità e crudeltà pronte ad aprirsi sotto i nostri piedi.
Lucido varietà dell’orrore
Andrea Nanni, Hystrio – N. 3 settembre 2005 / pag 101 / Critiche
[…] Siamo forse sul fondo di una delle tante piscine in secca evocate da James Ballard nei suoi primi racconti di fantascienza, tra telefoni che squillano e coniglietti di peluche che squittiscono, sosia di Fassbinder e grottesche rockstar, pale di fichi d’india (a ricordarci che il deserto avanza) e fasci di microfoni (a restituirci gli impercettibili scricchiolii della superficie). A differenza di quanto avveniva nei Cenci/Spettacolo, qui tutto è levigato, traslucido, asettico; le figure sono più che mai simulacri, puri portatori di segni che si aggirano in una bolla priva d’aria: ripetono i loro numeri solitari con programmatica estraneità, con un furore freddo che ustiona gli occhi. Disposto su tre lati intorno alla scena, chiusa solo parzialmente da un fondale che lascia penetrare gli sguardi anche nel backstage a sottolineare l’impossibilità di qualsiasi altrove, il pubblico è un voyeur schiacciato tra il muro e Io specchio, senza alcuna via di fuga nell’inutile attesa di una risata che lo salvi, o che, come succedeva in <OTTO>, gliene dia almeno l’illusione. Come la spia mutante di un fumetto di Moebius, Kinkaleri tende il suo agguato sussurrandoci all’orecchio:
«Potrei prendere tutte le forme che vorrai… anche la tua, se Io desideri», e mentre si aspetta il cambio di rotta che il gruppo ha già annunciato non si può fare a meno di pensare che la coscienza del baratro celato oltre il velo della bellezza non basterà a mitigare il dolore del confronto.
pool: benvenuti all’inferno
Rodolfo Sacchettini, Il Tirreno – giugno 2005
[…] L’inferno è davanti a noi. L’inferno è qualcosa senza rumore. Lo riviviamo, lo osserviamo, lo spiamo tenendo il fiato sospeso. Ma non potremo durare a lungo. Non possiamo tenere il respiro all’infinito, prima o poi dovremo soffocare. Una morte orribile. Eppure l’impressione è che il tempo non finisca mai di finire. Il silenzio è pesante, schiaccia la scena a terra, perché tutto appare come insonorizzato. Palline colorate bloccate da bicchieri di vetro. L’inferno è qui, è il nostro presente e non possiamo far finta di nulla.
Kinkaleri rischiano sui nostri gironi rubando immagini del presente, come hanno sempre fatto, ma questa volta la freddezza e il rigore lasciano spazio a un dolore intimo, personale. […]Non ci sono “messaggi”, “moralismi” o “proclami” tutto passa attraverso la dilatazione del tempo attraverso uno spazio vuoto galleggiante, che circonda lo spettatore anche con rumori e con azioni che accadono fuori dalla scena, fuori dallo spazio visibile dal pubblico. Ma sono soprattutto le immagini che si costruiscono sulla scena, in un susseguirsi faticoso ma a modo loro inevitabile, che ci richiamano continuamente i terribili tempi che stiamo vivendo.[…] Denaro, potere, sesso, stupidità, l’ultimo lavoro dei Kinkaleri si apre come non mai al “massiminale” ma attraverso un linguaggio “minimale” che recupera un certo formalismo, (forse ancora prima di OTTO?), un linguaggio che persiste nell’opporsi alla “rappresentazione”, anzi ne indaga proprio tutti i crolli, tutte le falsità e le ipocrisie. Non si guarda dall’alto in basso, perché siamo tutti sommersi allo stesso modo, dentro una piscina, dentro a Pool.[…]